Il pozzo [racconto © Alberto Corradi 2005]
Dedicato a Washington Irving, Tim Burton e Hideo Nakata.
Chi sei?
Non lo so.
Dove sei?
Qui, dove sono sempre stato.
Dove?
Nel pozzo. Con i morti.
Cosa fai?
Aspetto.
Perché?
Perché i morti non dormono mai.
Faceva fresco quella notte di ottobre, e il custode delle Arche Scaligere stava concludendo il suo giro di controllo. Ogni tanto capitava, ogni tanto, che qualche vagabondo o balordo si infilasse tra i monumenti in cerca di riparo o chissà che altro. E a lui toccava vigilare.
Aprì il cancello di ferro battuto e si infilò tra le tombe armato di torcia.
Sarebbe stata questione di pochi minuti, una rapida occhiata e poi di nuovo al caldo, in casa. Ma nello spiazzo lo attendeva una sorpresa. Un bambino, uno splendido fanciullo dai biondi boccoli se ne stava seduto solo soletto al centro delle Arche. La bellezza del bambino pareva quasi generare un alone di luce soffusa che rischiarava lo spazio intorno a sé. Tutto era assurdo, l’ora, il posto, la situazione: il piccino se ne stava lì, vestito solo di una finissima cotta di maglia argentea, i piedini paffuti che facevano capolino da sotto la lunga veste. Roba da broncopolmonite.
Si chinò sul bambino con un sorriso, ma prima che potesse aprir bocca: “Sai chi sono?” Quello lo fulminò con la sua voce, leggera come un sussurro.
Il guardiano sbiancò: non sapeva che rispondere.
“Il mio nome!” Ed esibì un adorabile broncino.
“Non lo so, mi… mi dispiace.” Balbettò.
L’uomo era sconcertato, non sapeva più se muoversi, prendere in braccio il piccolo, chiedere in giro, telefonare a qualcuno… Se ne stava lì impalato a fissare quel cosino mentre il suo respiro si addensava di continuo in piccole nuvolette di vapore. Era paralizzato.
“Non lo sa.” Mormorò deluso.
Il custode non aveva fatto caso all’immane ombra che incombeva su di lui, alle sue spalle.
Si rese conto che qualcosa non andava quando udì il sibilo della lama estratta con rapidità dal fodero. Finalmente si voltò a guardare.
Troppo tardi.
La sua testa rotolò lontano, spiccata dal busto.
“Qui, qui! Guarda che roba! Ma è possibile? Di tutti i posti dove uno deve farsi ammazzare proprio in pieno centro, con tutti i giapponesi e le loro macchine fotografiche che ci sono sin dalla mattina presto? Io in foto vengo uno schifo, in digitale poi ancora peggio!” Lo sbraitare del maresciallo era coperto dal brusio della folla che si accalcava intorno alla cancellata sconnessa delle Arche, in cerca di un particolare macabro da raccontare. Ma non c’era granché da vedere: un telo già aveva coperto il cadavere, mentre la scientifica stava finendo il primo sopralluogo. Il maresciallo si tormentava la pelata, coi nervi a fior di pelle.
“Francesco!” Una voce si staccò dal brusio di fondo. Tutti gli agenti si voltarono a guardare, mentre un questurino sbarrava la strada a un giovane dai lineamenti affilati.
Il maresciallo Trebaseleghe sospirò. “Fallo passare, lo conosco.”
“Ciao.”
“Guarda, ti ho fatto entrare sulla scena di un omicidio e già questo è contro procedura, quindi non ti ci mettere con qualcuna delle tue stronzate, d’accordo? Qui è da stamattina che tutto è un casino.”
“Chi hanno ammazzato?”
“Il custode delle tombe. Decapitato.”
Perlustrò l’area con lo sguardo.” Avete pulito? Alla faccia di quello che è contro procedura!”
Lo sguardo del militare si incupì. “No, tutto regolare. Non c’era sangue. Nessuna traccia.”
“Niente sangue? Cosa vuoi dire, che non ne aveva in corpo?”
“No, solo che non è uscito sangue dal taglio. Diavolo! Ce ne dovrebbe essere un fiume, invece nulla! Quelli della scientifica dicono che la ferita è come cauterizzata, ma senza ulcerazioni o bruciature. Guarda tu stesso”. Nel mentre che parlava sollevò per un attimo il telo. L’ospite sgranò gli occhi per la sorpresa.
“Ahhh. Ignis Inferi.”
“Ignis che?”
“Inferi. Vuol dire ‘Il fuoco dell’Inferno’. La lama che ha tagliato la testa non era di questo mondo.”
“Ecco, lo sapevo! Ora il soprannaturologo vuol dir la sua!”
“Medium, sono un medium.”
“Sei un cacchio di stregone, ecco cosa sei!”
Cristiano Sepolcro sorrise. Un sorriso che fece accapponare la pelle al maresciallo. Quegli occhi gelidi non tradivano mai alcuna emozione, e i capelli, biondi al punto da parer bianchi, lo facevano sembrare il figlio di una stirpe dannata. Ma tutto sommato, si ripetè per l’ennesima volta, quello stregone gli era già tornato utile. E se era lì c’era un perché. Un perché che non voleva sapere. Possibilmente. Si ricompose e lo guardò fisso. “Cristiano, curiosa in giro, fai ciò che devi, ma fai presto. Ho come la sensazione che questo caso lo dovrò archiviare tra gli irrisolti, quindi evitiamo che passi per fesso più di una volta al mese, vabbuono?”
“Vado vado… Ma, Francesco… e la testa?” Sorrise sornione.
“Dillo tu a me, Crowley.” Rispose acido l’uomo tracagnotto e sovrappeso.
Sepolcro annuì, dando un colpetto sulla spalla dell’amico in segno di commiato.
Attraversò a grandi passi Piazza dei Signori e nel mentre lanciò uno sguardo sbilenco all’Alighieri e una maledizione a chi l’aveva messo lì, rovinando il punto di fuga della piazza medievale. Si accomodò sulle scalette affianco della Pizzeria Impero, a riflettere. Qualcosa, come al solito, l’aveva attirato a sé, ma ora il potere di quel richiamo si stava affievolendo. Era giorno fatto ormai, e gli spettri sono forti nel cuore della notte o nell’ombra delle case, non alla luce del sole. Già. Si voltò a guardare la piccola Via Mazzanti. Come un sasso nella gola di un assetato, spiccava tra le case l’enorme vera da pozzo, tappata con un coperchio di ferro da che aveva ricordi. Il pozzo. Forse. Si tirò su e andò verso il cilindro di marmo. Man mano che si avvicinava sentiva il richiamo tornare a vibrargli nelle ossa, simile a un lamento. Stese la mano per stabilire un contatto.
Una voce lo fermò. “Non lo toccare. Non farlo, ti prego.” Si girò di scatto con la mano a mezz’aria. Un piccolo portone si era spalancato e davanti a lui si trovava una ragazza poco oltre la ventina, in pigiama, scalza. Era terribilmente pallida.
“Cosa? Perché non dovrei?”
“Il pozzo. È maledetto. La bocca dell’Inferno sta per aprirsi.” E svenne. Sepolcro fece un balzo in avanti e la prese al volo. Era leggera, la sollevò in braccio e si incamminò lungo le scale dell’abitazione, nella speranza che la ragazza non si fosse tirata dietro la porta uscendo. Ma no, la porta era socchiusa.
Cristiano la spalancò, rivelando una carneficina.
“Mi dispiace Francesco, ma questo… proprio non ti farà felice.” Mormorò Sepolcro contemplando quel panorama di morte.
Tutti nella casa, e poi si scoprì tutti nel palazzo, tutti nella via.
Tutti erano morti. Senza sangue. Senza testa. E le teste non le avrebbe trovate nessuno.
La macabra scoperta, poi giù dalle scale, tra le braccia di Sepolcro.
Non aveva visto nulla del massacro, eppure qualcosa sapeva.
Terminato l’interrogatorio di rito con un Trebaseleghe torvissimo, si ritrovò sola nel salotto di casa con lo stregone. Aveva notato il timore che trapelava dagli sguardi che il maresciallo gli indirizzava di continuo, aveva capito che lui era lì perché era speciale. Cristiano parlò. “Prima, là fuori quando ti ho trovata. Che intendevi con ‘il pozzo’?” Mosse due passi in sua direzione e Silvia lo agguantò. Con gli occhi tumidi di lacrime prese a strattonargli disperata il lembo della giacca di pelle, singhiozzando: “Non capisci? È l’acqua. È l’acqua del pozzo! Tutta la via attinge acqua dal pozzo, la maledizione si trasmette così! Basta berla, lavarcisi, usarla per cucinare! E lui… lui saprà come trovarti.”
“Lui chi?” La incalzò Sepolcro sempre più interessato.
“Il Cavaliere Senza Testa”. Silvia si fece piccola. “Pensavo fosse una leggenda, me la raccontò la nonna quand’ero bambina. Le notti di fine Ottobre il fantasma di un cavaliere che vive nell’acqua ferma del pozzo esce col suo nero destriero a reclamare teste. È la sua vendetta: è carico d’odio perché gli hanno rubato la testa quand’era vivo e da allora pretende quelle dei vivi finché non gli verrà restituita la sua. Il pozzo… ne è colmo! È la bocca dell’Inferno che si apre una volta ogni cento anni!” Ansimò.
“Così l’acqua del pozzo è il vettore della maledizione. Bene. Resta solo scoprire chi è lo spettro per praticare l’esorcismo. Trovare il nome. Resta qui, più tardi mi dovrai aiutare.” La poverina annuì piano mentre riprendeva a piangere.
Uscì in strada e si guardò intorno: aveva poco tempo prima che calasse la sera. Da che parte iniziare? Non aveva la minima id… Restò di stucco, fissando la lapide commemorativa posta sopra il portone dell’abitazione. “Stupido idiota. La risposta stava lì, appesa sulla mia testa. Torna tutto, testa compresa.” Si precipitò a telefonare. Trebaseleghe aveva avuto il suo porco da fare per sistemare quella massa di cadaveri, tenere a bada la stampa, evitare che il questore, il sindaco, la giunta comunale e varie alte cariche dello stato lo schiacciassero a furia di pressioni. La telefonata di Sepolcro diede il via allo scoppio di isteria che aveva ritardato per tutta la giornata. Attaccò a sbraitare, insultando l’amico con veemenza. Lo stregone non fece una piega. “Francesco. Francesco! Tu fammi trovare il pozzo aperto. Stanotte. Non ti chiedo altro. Tu fallo e tutto avrà fine. Ciao.” E riattaccò mentre l’altro gli urlava “Va bene! Lo faccio! Maledetto stregone dei miei stivali!”.
Il maresciallo fu di parola. Quando lui e Silvia scesero nella via, il coperchio era già stato rimosso e il pozzo recintato con gli avvisi di pericolo.
Cristiano aveva fatto spesa: cinque metri di corda e una imbragatura da roccia, che assicurò stretta alla vita della ragazza. Silvia sapeva già tutto: doveva essere lei a calarsi nel pozzo e fare ciò che andava fatto, mentre lo stregone attendeva all’aperto per praticare l’esorcismo. L’aveva convinta con sufficiente facilità, dato che così la ragazza aveva l’opportunità di non vanificare la morte dei suoi familiari.
Quando arrivò in fondo al pozzo non trovò niente. L’acqua le arrivava alla vita. Era scalza, e capì subito su cosa stava camminando. Erano i crani delle antiche vittime del Cavaliere. Ricacciò indietro un grido di raccapriccio, fece come le aveva detto Sepolcro. Lo chiamò. “Dove sei?” Il pelo dell’acqua si increspò, come mosso da una brezza leggera. Apparve il bambino, che la fissava.
“Qui. E le parole stanno marcendo nella mia bocca. Sono qui.” E tacque.
“Cristiano! Cristiano! Qui c’è un bambino! Mi hai capito? C’è un bambino nel pozzo! Tiraci su, presto!”
“No! Silvia non ti muovere! Non è un bambino! È il suo tramite! Un’emanazione con cui riesce a comunicare col mondo dei vivi!” Diavoli. Pensò Sepolcro. Quello spettro era così potente da generare un riflesso di sé bambino. Doveva covare un rancore spaventoso. D’altronde, ottocento anni di agonie a cercare la propria testa non erano cosa da poco. “Silvia prendilo! Lui lo vuole! Fallo ora!” Strillò.
Silvia si fece avanti timorosa, sospinta dalle parole dello stregone. Il bambino era meraviglioso, aureolato di una luce spettrale azzurrognola. Le sorrideva triste, mentre lei si allungava tremante verso e nel suo viso. Chiuse gli occhi. Al tatto la pelle del bambino era come la superficie del pozzo: liquida. Vi infilò la mano e il cranio se ne venne via con un risucchio ovattato. Quando Silvia tornò a guardare, il piccolo era scomparso. Ma stringeva tra le mani il suo trofeo.
“Sepol…” Non fece tempo a finire di invocare il nome dello stregone che tutt’intorno a lei ci fu un ribollire improvviso, e sul pelo dell’acqua affiorarono le teste. Di tutti.
Sua madre la fissava con occhi di cadavere. Silvia urlò. Cristiano si precipitò alla bocca del pozzo.
“Silviaaa!!! Presto sali, sali! Sta per uscire! Sbrigati, portami il suo teschio!”
La ragazza in lacrime cominciò a inerpicarsi lungo la superficie scivolosa del pozzo, mentre Sepolcro tirava come un disperato per recuperarla in tempo. L’acqua ormai ruggiva di furia cieca, e dal pentolone stava per saltar fuori l’anima dannata. Silvia era lì lì per uscire quando la Bocca dell’Inferno si spalancò con un boato. Il pozzo vomitò il Cavaliere e il suo destriero, proiettandoli direttamente su Via Mazzanti. Come un proiettile, la carcassa rancida d’acqua del cavallo sfiorò i capelli di Silvia. Lei percepì il tanfo della putrefazione, mentre le bardature lacere sibilavano nel vento.
Come un’ombra nera, il Cavaliere ora era fra loro, la lunga spada scheggiata serrata nel pugno, la cotta di maglia lorda di muffa, le finiture dell’armatura marce e sbrindellate. Il destriero vomitava acqua nera e schiuma, fissandoli con atroci occhi rossi. Sepolcro restò paralizzato una frazione di secondo, poi si voltò a tendere la mano a Silvia che stava scavalcando. La tirò a sé, le strappò il cranio dalle mani e scattò verso il Cavaliere che sceso di cavallo incombeva su di loro. Si gettò in ginocchio, urlando mentre tendeva il teschio in direzione dello spettro che già levava la spada per decollarlo. Gridò.
“Tu sei Mastino I della Scala, sei stato assassinato ottocento anni fa in questa via! Ti hanno staccato la testa e l’hanno gettata nel pozzo! Era il 26 Ottobre del 1277 e questo è il tuo cranio! Accettalo come pegno del nostro rammarico e del rammarico di chi ha vissuto prima di noi!”
Il cavaliere s’arrestò, gettò via la spada, afferrò il teschio e lo rimise al suo posto. Dalla base del collo un fascio di filamenti proruppe a ghermire l’osso, avviluppandolo. Le vene presero a riformarsi, i muscoli a contrarsi, le cartilagini riapparvero sul setto nasale, gli occhi si riaffacciarono nelle orbite vuote. La pelle e i capelli infine ricoprirono il tutto.
Un’accesa luminescenza si propagò per la via, mostrando al mondo ciò che era andato perduto per ottocento lunghi anni. Il viso dell’antico Podestà della città era angelico, tratti di una tale dolcezza comparabili solo alla serenità del suo sorriso: l’età era indecifrabile, sigillata nello scorrere dei secoli. Volse occhi indulgenti verso i suoi liberatori.
Sepolcro parlò con voce ferma: “Vai in pace antico Signore. Hai avuto la tua vendetta e ottenuto ciò che bramavi. Eri un bambino triste che smarrita la via di casa è caduto in un pozzo da cui non riusciva a uscire. Ora sei libero. Chi può condannarti?”
“Forse solo un dio.” Bisbigliò Silvia.
Mastino I fissò la ragazza con i suoi begli occhi spenti, e un orripilante ghigno deformò i giovani lineamenti ancora e ancora, finché non fu che una maschera di paura con un sorriso disumano stampato sopra. La luminescenza spettrale si intensificò, fino a divenire una nova di luce in cui lo spettro e il destriero scomparvero, seguiti da una lunga, agghiacciante risata.
La notte si fece giorno per una frazione di secondo.
Tornata che fu la notte, solo Cristiano e Silvia restavano innanzi al pozzo, una stretta all’altro.
“Non dove è diretto.” Mormorò Cristiano, levando lo sguardo alle stelle, quella notte d’Ottobre del 2077, a Verona.
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